lunedì 19 dicembre 2016

Caro Babbo Natale,

Caro Babbo Natale,

perdonami, ma quest’anno vorrei chiederti un grande favore, vorrei cambiare un po’ le nostre abitudini, e lo so che non è facile dopo tanti anni.
Sai, caro Babbo Natale, io sono un uomo fortunato, ho avuto tanto e ho talmente tante « cose », che alcune di esse sono proprio « troppe ».

Ecco perché quest’anno vorrei che preparassi la tua slitta con tanto spazio vuoto, perché le cose che ti chiedo… vorrei che me le portassi via…

Caro Babbo Natale,

Potresti portare via tutta quella rabbia e quell’odio che vedo ormai serpeggiare in ogni sguardo, in ogni commento, in ogni situazione in cui due esseri umani si confrontano ?

Forse non sai cosa fartene, ma avrei bisogno che mi liberassi anche di tanta stupidità, non tanto perchè sia troppa, ma perchè troppo spesso frequenta solo più la presunzione e non hai idea del danno che le due riescono a fare insieme.
Quando la stupidità se ne stava per conto suo, si aggirava con un velo di auto commiserazione che la rendeva tollerabile, ma la presunzione è veramente la droga peggiore, capace di alimentare e moltiplicare gli effetti di ogni vizio umano.

Caro Babbo Natale, sarebbe cosi’ bello se nella tua slitta avanzasse un po’ di posto per cibo e bevande. Guarda nei supermercati, ma anche nella mia dispensa, sono sicuro che potresti trovare il superfluo senza troppo cercare e sono certo che sapresti farne buon uso nel portarlo a chi ne ha molto più bisogno di me.

Avrei voluto chiederti molto di più, ma devo ammettere che non merito tutta la tua generosità, e quindi mi tengo tutti gli anni che mi porto addosso. In fondo non sono stati così male, sono il senso stesso della mia vita, ed un po' mi ci sono affezionato. 

Per piccoli regali, sai abbiamo tutti qualche stupida debolezza…. potresti portarmi via un po’ di chili, soprattutto dal mio giro vita ? 
…ormai non riesco quasi più a vedere la punta dei piedi e il mio metabolismo, ahimè, non mi ascolta più.

E poi, lo so che è difficile, ma vorrei che portassi via anche un po di roba vecchia che ho negli armadi. Chi mi conosce lo sa, io ci sono affezionato perchè tutto ha un ricordo e da solo non troverei mai il coraggio di liberarmene. Ma tu ce la puoi fare, si tratta di capi ormai fuori moda e del tutto anacronistici, un uso alternativo e forse utile sono sicuro che riesci a trovarlo.

Grazie Babbo Natale per quello che riuscirai a fare, grazie comunque.
Io mi sento più leggero già al solo pensiero.

Ah, un’ultima cosa :  …se nel tuo vagare con la slitta incontrassi per caso i miei genitori, li puoi riconoscere facilmente : sono quelli che si tengono per mano discutendo animatamente...

Ecco, se li vedi me li saluti per favore…

Grazie,



lunedì 31 ottobre 2016

La forza della natura

E’ così, la forza della natura è la sua bellezza e allo stesso tempo la sua terrificante potenza distruttiva.

Penso alle sensazioni di chi ha visto il proprio paese raso al suolo, un ammasso di detriti a coprire ogni ricordo.
Borghi e strutture di una bellezza esagerata devastati, irrimediabilmente distrutti, come statue di ghiaccio con l’arrivo dell’estate.

Davanti a questa distruzione totale non riesco a ragionare con razionalità, non riesco e non voglio capirne la logica. E neppure farmene una ragione.

Penso in modo disordinato.

Credo che poco si possa fare per arginare…
Come posso pensare di mettere in sicurezza ciò che non esiste più, o come poteva essere messo in sicurezza un manufatto concepito e costruito secoli fa.
Non stiamo parlando dei grattaceli di San Francisco che si inclinano e dondolano sulle loro fondamenta a molla o rulli, ma di vecchie e gloriose costruzioni, cariche di storia e di emozioni.
Non ci sono più e credo sia inutile pensare di ricrearle.

Come un incendio distrugge le foreste per permettere a nuove generazioni di crescere e diversificare, forse anche un cataclisma può rappresentare una violenta discontinuità, pur nella sua tragica manifestazione.

Penso quindi a nuovi borghi e nuovi villaggi, forse anche a nuove identità.
Mi piacerebbe convincere chi ha perso tutto che il valore della ricostruzione sta nel nuovo e non solo nella ricerca di quello che si è perduto.
E non per consolare, né per dare un senso al perduto, ma per dare un senso al futuro.

Vorrei che le ruspe e il cemento avanzassero con gentilezza, vorrei che l’urbanistica fosse studiata con amore, vorrei che i materiali utilizzati venissero scelti con cura.
Insomma vorrei che la ricostruzione avesse un’anima.
Una propria anima, l’unione delle anime che sono sopravvissute e dovranno tramandare il ricordo.

Il patrimonio culturale, sociale, storico non muore, anche se materialmente non esiste più. Saranno le poche costruzioni  rimaste in piedi a ricordarcelo come moderni « partenoni », monumenti di una civiltà che fa parte della storia dell’umanità.

Ma ci vorrà tempo e sofferenza… e nel frattempo, nel breve « frattempo », vorrei che ogni persona che ha visto quanto di più caro crollare sotto la polvere e le pietre possa trovare il coraggio per reagire, la forza per crederci, la tranquillità per dormire.

giovedì 13 ottobre 2016

La tua mano...

Stringi ancora la mia mano, non lasciarmi andare....

Ricordi la prima volta, quando con sguardo all'insù mi sono aggrappato al tuo indice, per tenermi in piedi?

Ricordi quando finalmente sono riuscito a afferrare la tua mano in tutta la sua interezza?
Mi sembrava cosi' grande, non riuscivo neppure a prendere tutte le dita, ma mi sentivo cosi' protetto.

E ricordi quando, finalmente, le nostre mani si sono unite in un arco di leggerezza, fianco a fianco.

E la prima volta che l'hai posata sulla mia spalla, quella volta che poi hai accarezzato i miei capelli, con noncuranza.

E infine, un giorno, è stata la tua mano a cercare la mia, tesa per aiutarti, per darti un sostegno.

E anche oggi quando perso nei miei pensieri mi volto a cercarti, la tua mano la trovo sempre li...
stretta alla mia, abbracciate, per sempre...



giovedì 8 settembre 2016

Incontri....

È successo un po’ di tempo fa, in un posto sperduto dello stato dello Utah, che se non ricordo male si chiama Soldier Hollow.
In una tenda che aveva la pretesa di essere una "Vip Lounge", in realtà, una semplice copertura con qualche tavolo e un paio di sedie, uno scaldavivande e qualche vassoio di biscotti.

Noi eravamo in piedi, vicino ad uno di quei tavoli rotondi, un po’ alti dove appoggiare i bicchieri.
Io allora ero un neo-quarantenne che scopriva una vita nuova, pieno di entusiasmo per la sorpresa e il coraggio delle proprie scelte.
Fabrizio un giovane ancora troppo giovane, in bilico tra un futuro da serio professionista e un presente da piccola mascotte.

Eravamo all’inizio di una grande avventura, non sapevamo che saremmo cresciuti e forse cambiati, in quel momento tutto ci appariva al di sopra delle nostre aspettative.

Tanto il nostro entusiasmo che un signore, altro unico avventore della tenda, si avvicina per condividere anche lui il nostro entusiasmo.
Alto, ben vestito con il suo bel maglione norvegese e la giacca-vento piena di colori.
« Eh… noi faremo le prossime olimpiadi : a Torino…. »
« Lei forse non lo sa, ma saranno magnifiche, le prime invernali realizzate un una grande città ».

Lui ci guarda divertito, mentre con enfasi e fierezza noi solleviamo il nostro « accredito » (quel cartoncino che si porta sul petto con foto, nome ed organizzazione).
Ci scambiamo battute, io e il mio amico Fabrizio, un po’ sorridendo della quasi ingenuità delle domande che il nostro nuovo amico ci pone.

E’ per questo che alla fine, abbandonata per un attimo la nostra goliardica supponenza, gli chiediamo con aria paziente : « .... e lei, come mai si trova da queste parti ? cosa fa nella vita ? »

Il nostro amico sorride, con altrettanta pazienza e senza troppo scomporsi, con un gesto automatico quasi come il nostro, alza il suo « accredito » da sotto il bordo del tavolo :
« … mi interesso di sport, una volta ero campione di vela, adesso nella vita faccio il Re di Norvegia »

« piacere Harlad »
« piacere Fabrizio »
« ehhmm… piacere, Enrico »




http://video.repubblica.it/mondo/il-discorso-virale-del-re-di-norvegia-sui-diritti-lgbt-e-immigrazione/251183/251347

http://www.lastampa.it/2016/09/07/multimedia/esteri/il-discorso-di-re-harald-v-di-norvegia-conquista-il-web-con-il-suo-messaggio-KZkOfbwJtufWOXFUARveBN/pagina.html

https://youtu.be/zvB0jZKRKrk

venerdì 19 agosto 2016

Zen in motocicletta

Probabilmente bisogna diventare vecchi per vedere, per calarsi in una dimensione diversa, per vivere il mondo dal di dentro.

Essere parte della strada e non percorrerla. Sentire l’odore dell’aria e non avere confini.
Percorrere i paesaggi per il gusto di averli attraversati e non per raggiungere una destinazione.

Se la vita fosse un viaggio vorrei non avere una meta, ma solo il piacere di spostarmi e di scoprire.
Per poi non pensare alla strada percorsa, ma semplicemente alle emozioni vissute, al movimento.

Il blu violento del cielo, il verde intenso della campagna, il riflesso dell’acqua di un lago, il contrasto della roccia con il cielo, lassu dove piu in alto non si puo’ andare, lassu’ dove si puo’ soltanto proseguire.

Ci sono viaggi che non hanno ritorni, che non hanno durata.

Immersi nell’essenza stessa del movimento, tanto che se la vita fosse un viaggio vorrei farlo in motocicletta.






martedì 2 agosto 2016

Gesti antichi

Era appena finita la guerra, un tempo ormai lontano che molti di noi fortunatamente non hanno vissuto.
Immagino una Condove in trasformazione,  la fabbrica, gli operai, via Torino con i ciottoli e le lastre di pietra per il passaggio dei carri.
In quella primavera del ’46, o forse anche prima, Franco entrò per la prima volta nel negozio del barbiere, come garzone per apprendere il mestiere.
Aveva 16 anni o giu’ di li.

Solo qualche anno piu’ tardi il negozio di proprietà, la licenza commerciale, valida ancora oggi, li nel suo cassetto con il timbro del ’57.
Perchè Franco è ancora li, nella stessa via, solo pochi metri di distanza dal suo primo negozio. 
Ancora in piedi, fuori dalla porta ad aspettare il primo cliente, l’amico di passaggio, ad aspettare me, forse, che da oltre 50 anni lo vado a trovare con una abitudine che mi fa ormai tenerezza.
I suo gesti sono sempre gli stessi.
Pochi passi verso la poltrona, il telo fissato dietro al collo con gesto sicuro,  teso sopra le gambe con naturalezza.
Due parole sul tempo, sul lavoro, un cenno al passato, un « ti ricordi ?... » accompagnato da un sorriso.
Il rasoio oliato al momento per una prima passata, e poi le forbici. 
Quelle forbici.
Prendono vita nelle sue mani, musica ritmica. 
Tre colpi di preparazione e uno sui capelli tenuti dal pettine (e non dalle mani come i parrucchieri moderni).
Dal basso verso l’alto, per finire con colpi precisi di rifinitura, sempre senza occhiali anche adesso che gli anni si fanno sentire.

Gesti antichi  che si ripetono fedeli ad un copione da decenni, tanti decenni. Da quella primavera del ’46 (o forse prima)
Perche’ per Franco, mio Zio, il tempo sembra avere regole sue. 

Il rasoio, quello vero d’acciaio, ancora fermo nella mano mentre sfiora la pelle con delicatezza, e il peso di 70 anni di negozio, di barba e capelli non si fanno piu’ sentire.

70 anni di storia, di vita di paese, di colpi di forbice, di sapone e pennello.

Sempre gli stessi gesti, gesti antichi …




sabato 20 febbraio 2016

Fino all'ultimo respiro...

Immagino un tempo fuori dal tempo.
E immagino una coppia, due persone non più giovani, ma dignitose e sicure di se.
Allegre senza darlo a vedere. Felici senza saperlo. E vivi più di quanto lo siano stati in passato.
Immagino quelle due persone sempre vicine, tanto vicine che qualche parte di loro è sempre in contatto. Come una forza inconsapevole ed invisibile.
Capaci di guardare nella stessa direzione con lo stesso interesse e la stessa intensità di quando si guardano negli occhi.
Li vedo passeggiare tra le foglie d’autunno, lentamente.
Poi ogni tanto abbracciarsi, per il gusto di ritrovarsi pur stando sempre insieme.
Immagino i loro sorrisi quando gli sguardi si incontrano e il calore dei loro discorsi quando affrontano temi importanti.
Immagino la loro curiosità, la voglia di sapere per il piacere di conoscere, finalmente liberi da ogni vincolo.
Immagino i loro interessi, la voglia di viaggiare e di vedere il mare.
O semplicemente la voglia di vedere.
Organizzare una cena, scegliere il vino.
La voglia di sedersi su una panchina in silenzio. Respirare il vento.
Ascoltare la stessa musica. Si ascoltare musica, tanta musica.
Immagino lei in cappottino leggero, chiaro, con gli stivali .
Elegante come sempre e bella come il sole.
Con il tempo che sottolinea ed arricchisce i suoi tratti. Quei tratti che lui ha sempre amato quando erano delicati ed accennati che non può non amare ancora di più adesso che sono finalmente più marcati.
Immagino lui, protettivo e sempre impacciato, ma finalmente sereno.
Lo vedo sorridere senza farsi vedere, per poi assumere il suo tono serioso e brontolone di sempre per non farsi scoprire.

Ecco, io ci immagino così  ...fino all’ultimo respiro.


giovedì 28 gennaio 2016

Con gli occhi chiusi

I bambini spesso nascono di notte.
Non è una regola assoluta, ma per me l'unica realtà conosciuta. Io sono nato di notte, mia figlia è nata di notte, si dice che anche Cristo sia nato a mezzanotte.
Forse perché vengono dalla notte, teneramente protetti dal tepore del ventre materno e accarezzati dal cullare ritmico del respiro, il loro unico ambiente conosciuto.
Sono stati al buio e sono stati bene, ancora non sanno quali e quante sorprese potranno scoprire, quando scopriranno la luce.
Ma avranno tempo per conoscere la luce, per capire i colori, per aprire gli occhi ed imparare a vedere.
Adesso il buio è ancora così dolce e protettivo.
D'altronde come può un bimbo averne paura? Il buio non gli nasconde nulla, perché è ancora il nulla la sola cosa che lui conosce.
Ha appena imparato a respirare, una cosa per volta. Con difficoltà e con paura, la prima ondata di aria gli è entrata nei polmoni, come un colpo di vento improvviso.
Già, che colore ha il vento?!
Che importa. Che bisogno ha, lui, di vedere il vento, che bisogno ha di vedere il volto della mamma?
E per questo che i bambini vorrebbero nascere solo di notte, per non dover chiudere gli occhi, ma poter restare ancora un poco li, senza sapere, senza vedere e continuare a sognare.
"No mamma, non darlo alla luce, tienilo ancora un poco con te, proteggilo ancora con l'ombra del tuo corpo, gli hai dato la vita lascia che sia la luce a venirlo a cercare, c'è tempo!"
Chiudi gli occhi anche tu, mamma e ascolta il suo primo respiro. E' notte, ha un attimo di vita, forse ha gli occhi chiusi, forse no.
I bimbi che nascono di notte non hanno paura di chiudere gli occhi perché sanno che anche con gli occhi chiusi il mondo non scompare.
I bimbi che nascono di notte non hanno fretta di aprire gli occhi, perché sanno che solo così possono continuare a sognare.

Forse è per questo che noi, bimbi nati di notte, abbiamo bisogno di tanto in tanto di chiudere gli occhi, per tornare così, ignari come allora.

martedì 12 gennaio 2016

Incipit

Torino, esterno giorno passeggiando sotto i portici:

“Hai visto il mio nuovo cappello?” -  disse lui, sinceramente goduto nel toccare la pelle morbida e ricordando la gentilezza del negoziante che aveva visitato poco prima. “Non mi piaceva più la mia testa” - continuò ostentando profonda filosofia per nascondere che l’aveva comprato per pura vanità e per darsi un tono.
Lei sulle prime si lasciò andare alla bassa ironia, poi sorrise e pensò che quel cappello gli stava proprio bene.

Lei sapeva bene che, quando viene il momento di mettere la testa a posto o di fare ordine in una mente sconclusionata, le signore vanno dal parrucchiere: le tinte tolgono il grigio dall’anima, le mèches rischiarano i pensieri, un buon taglio rimette in forma anche uno spirito ammaccato. Anche una semplice messimpiega ha il suo effetto benefico nel riordinare le idee.
Un servizio di qualità, poi, con taglio, massaggio, colore e manicure vale più di qualsiasi psicanalista dal doppio cognome.
Certo che lui con ciocche e permanente proprio non ci stava... il cappello sì.

Lei pensò ai cappelli di suo padre, alle scuse che accampava (ah, la sinusite!) per poterlo indossare anche d’estate, alle pile di cappelli ordinate per colore nei negozi dove lo accompagnava quando era bambina. Chissà dove saranno finiti i cappelli di suo padre…
Vorrebbe accarezzarne uno di quelli di tweed, quelli un po’ rigidi, ma forse vorrebbe soltanto poter vedere suo padre, ascoltarlo ancora un po,  pranzare un giorno a casa sua.

Anche lui si era perso nei suoi pensieri.

Lui avrebbe voluto un cappello più stretto, in fondo voleva semplicemente nascondersi e quelle falde troppo larghe davano un senso estetico eccessivo. Aveva provato a piegarle verso l’alto tentando di ridurre l’impatto visivo, ma inutilmente visto che il problema delle dimensioni dipendeva dalla testa e non dalla fattura.

Aveva passato una vita a cercare di nascondere quei tratti somatici che non amava, esagerati, pensava, per dimensione e ruvidità. Anche se poi il problema di non piacersi è marginale se non si passa davanti ad uno specchio, per cui preferiva pensare a se stesso come immagine del padre, cercandone le sembianze tra rughe e tratti somatici, là dove le somiglianze erano più cariche di nostalgia che di genetica.

Lei lo vezzeggiava nel guardare con ironia e interesse quel nuovo look, ma lui sapeva bene che i pensieri che le passavano per la testa non erano esattamente coerenti con le parole. Ma ne apprezzava l’impegno e le leggeva negli occhi pensieri lontani.

Chissà se quei pensieri incontrollati e selvaggi si erano incontrati per qualche casuale motivo, là dove dove la complicità non è più un gioco ma una semplice intesa.

Magari pensando al padre, ai padri…