martedì 7 dicembre 2010

Caro Babbo Natale

Caro Babbo Natale,

mi sei sempre stato simpatico, forse perché sei l’unico che con molta pazienza ha ancora il pregio di saper ascoltare.

Da tanti anni non ti scrivo più, ma questo è stato un anno difficile e mi piacerebbe veramente, con il tuo aiuto, vedere qualche cambiamento.
Dalla mia ultima lettera sono successe molte cose e anche i tuoi doni si sono evoluti nel tempo, nonostante la barba e le renne, sei riuscito a stare a passo con i tempi. Anzi, spesso hai portato cose nuove che noi poveri adulti ancora non sapevamo maneggiare. Perciò sono convinto che saprai interpretare i miei pensieri e con il tempo saprai tradurre in realtà le speranze e le convinzioni.
Senza fretta, quando ti tornera’ comodo.

Vorrei tanto che tutti potessero scrivere come me, su un bel computer veloce, collegato alla rete senza problemi. Ci sono ancora tante persone che non lo possono fare.  Lo chiamano “digital divide” e qualcuno pensa di risolvere il problema con la Rete di Nuova Generazione.

Sarebbe gia’ un bel risultato se le reti mobili fossero di nuovo efficienti come agli albori, se il WiFi fosse piu’ libero, se le nuove soluzioni non partissero e si fermassero ai grandi centri urbani.

Tu che puoi, porta fibra in tutti i paesi, in tutte le case, in tutte le piccole aziende che popolano il nostro Paese.

Ti sarei grato se poi mi aiutassi a risolvere il problema della Privacy e della Sicurezza dei dati. Noi stiamo forse esagerando con le norme e le regole, perdendo l’attenzione sui controlli e sulle soluzioni piu’ semplici.

Tu come la gestisci con tutte le lettere che ricevi?

Tutti quei dati che in realtà ci stanno soffocando. Sono tantissimi e sempre piu’ spesso poco utilizzati, se non addirittura del tutto inutili. Caro Babbo, portami una macchina in grado di cancellare e distruggere tutti quei i dati che non servono più, e quelli che non sono mai serviti. Lo so che è un regalo molto impegnativo e non importa se non ci riesci per quest’anno, io ci spero anche per l’anno prossimo. Prenditi il tuo tempo.

Infine ti chiedo il regalo più grande. Vorrei tanto una piccola macchina, una specie di sfera di cristallo, da usare per far vedere a manager ed imprenditori come potrebbero essere le loro imprese se solo accettassero un po’ di cambiamento, qualche cenno di innovazione, una spruzzatina di sano rinnovamento.

Che cosa potrebbe succedere se, per esempio, assumessero finalmente dei giovani per farli crescere e non solo per sfruttarli.
Avrei tante altre cose da chiederti, e non sono neppure certo di averti chiesto quelle più importanti, ma sono sicuro che hai colto il mio pensiero e che saprai leggere anche quello che non ho scritto.

Grazie comunque,
Enrico.

p.s. Volevo anche mandare un po’ di carbone in giro, ma per quello è meglio se scrivo direttamente alla Befana, vero?

martedì 16 novembre 2010

In equilibrio sulla nuvola

Per quale motivo il Cloud affascina cosi’ tanto?

Sarà che il termine stesso richiama sensazioni intime, come quando si alzano gli occhi al cielo.
La nuvola rappresenta un sogno, una visione, ma anche qualcosa di lontano, impalpabile, etereo
.
E invece il Cloud va affrontato considerando tutte le condizioni al contorno, senza lasciarsi facilmente trascinare dal fascino dolcemente romantico della… nuvola.

Non si tratta semplicemente di una nuova tecnologia o di un nuovo modello, ma di un approccio al sistema, che probabilmente comporta l’analisi e la costruzione di un nuovo e diverso universo multidimensionale.

Vediamole queste dimensioni:
  • I dati: da selezionare e da organizzare prima di essere spediti sulla nuvola
  • La rete: i canali di comunicazione, la loro affidabilità, ma soprattutto la grande capacita’ di trasportare informazione. Quali garanzie sulle performance, sui livelli di servizio
  • Le applicazioni: soluzioni standard o personalizzate. Le interfacce con i sistemi piu’ tradizionali, la gestione dei flussi di dati se e dove necessari.
  • La sicurezza: quale crittografia, quali strumenti a disposizione di chi sta sulla nuvola per gestire dati che non gli appartengono.
  • La migrazione: Facile parlare di soluzioni Cloud quando si progetta un nuovo servizio su una nuova piattaforma. Ma quando abbiamo gia’ una piattaforma in casa, come migrare verso il Cloud e perche’. Con quali valutazioni di costi, rischi, ritorno degli investimenti.
  • L’evoluzione tecnologica: Quale piattaforma Cloud, quale soluzione selezionare, in grado di scalare su dimensioni in crescita, su nuovi servizi. E domani? Come saltare da una nuvola all’altra. Come evitare di rimanere incastrati sulla nuvola sbagliata
  • La privacy: quali politiche devono essere adottate in relazione ai dati selezionati e alla politiche sulla sicurezza
E solo se il baricentro di questo complesso sistema trova il suo giusto equilibrio, la nuvola sara’ in grado di ruotare con eleganza attorno al business.

lunedì 1 novembre 2010

La tassa sul macinato


Proviamo ad immaginare un prodotto venduto sul mercato, che ti obbliga per anni a pagare una tassa solo per poter essere utilizzato. E non una tassa qualunque, quasi il 20% del prezzo d’acquisto.

Sarebbe la fine di quel prodotto.

Invece l’industria del software, ha regole diverse.
Nell’industria del software non esiste il periodo di garanzia. Anzi, spesso nei contratti è messo ben in chiaro che il fornitore non si assume nessuna resposabilita’, ne’ su eventuali malfunzionamenti (i piu’ generosi dicono: dopo i primi tre mesi), ne’ su resposanbilita’ dirette o indirette che tali malfunzionamenti potrebbero causare.
Ma non solo, tutto il software prodotto, quello fatto su misura (gli sviluppi) o a pacchetto (le licenze), causa un costo operativo eterno.

La manutenzione: la nuova tassa sul macinato.

Qualcuno l’ha nomitata software assurance, giusto per darle una veste tecnologica. Ma sempre di una tassa si tratta.

E non importa se anno dopo anno si veste di nuove voci e di nuovi contenuti: il training, gli eventi, i servizi “gold”,  e via dicendo. Comunque tassa resta.

Se vogliamo parlare di nuovi modelli di business dell’industria del software iniziamo a considerare la manutenzione come qualcosa che fa ormai parte della storia del medioevo informatico.

Rifiutiamoci, laddove possibile, di pagare tale tassa. Mettiamola in discussione.
Piuttosto rinegoziamo le licenze software, migriamo gli ambienti, ricompriamo licenze scadute. Cerchiamo di far capire che anche il mondo del software dovrebbe confrontarsi con le leggi mercato.

Siamo assolutamente consapevoli che molti fabbricanti di software sopravvivono grazie a questa tassa, alla manutenzione. Ma non e’ una buona ragione per mantenere in vita un modello che non ha pari nel mercato moderno.

Sta proprio a quelle organizzazioni trovare un nuovo modo per generare cassa e per finanziare gli investimenti. Magari attraverso prodotti sempre piu’ innovativi che spingano le aziende verso nuovi investimenti. O anche nuove forme di service, basate sulle effettive esigenze del cliente e non imposte da contratto.

Qualche piccolo segnale comincia ad arrivare, speriamo.


lunedì 12 luglio 2010

Un mare di dati

Gestire la crisi sembra oggi il solo tema che interessi la comunità “tecnologica”.
Forse perche’ la crisi non mostra segni di debolezza, ma soprattuto non mostra tendenze chiare verso una soluzione o anche semplicemente verso un cambiamento.

La mancanza di punti di riferimento e di chiare strategie è forse dovuta alla mancanza di una vera e propria diagnosi della situazione contigente.

Come la medicina insegna, solo una lunga osservazione dei fatti, unita a diverse sperimentazioni, permette di trovare una soluzione alla malattia e dopo, a volte solo dopo, l’identificazione della causa.
Ma i principi medici nel campo del marketing, della finanza e della tecnologia non vengono applicati e quindi invece di sperimentare, di osservare, di ipotizzare, ci si limita a “ricoverare”.
Ricordiamoci che per anni la medicina ha progredito molto lentamente, e solo nell’ultimo secolo, con l’adozioni di strumenti tecnologici avanzati, ha potuto accorciare i tempi per l’identificazione dei fenonemi e lo sviluppo di terapie precise e corrette.

La tecnologia al servizio della medicina.

E allora perchè non la tecnologia informatica al servizio dell’umanità.
Lasciamo alle spalle, per un momento, i sistemi, le reti, l’outsourcing, il cloud, il budget e proviamo a pensare quanti dati, quanta informazione ci circonda, quanta potenza di calcolo abbiamo a disposizione, quanta poca attenzione prestiamo a questo immenso patrimonio.
Patrimonio che tenderà ad aumentare sempre di più. Ogni oggetto, ogni azione sarà sempre più spesso tracciata da sensori, raccolta in enormi database per un utilizzo ad oggi “banale”, se non marginale
Proviamo ad immaginare cosa si potrebbe fare se si riuscisse a concentrarsi sull’informazione, cercando di raccogliere, organizzare, analizzare e rendere disponibili banche date immense.
E non solo disponibili a enti e strutture di ricerca, ma anche se non prevalentemente al mondo del business.

Grandi e veri “cloud” quindi. Dove l’analisi interdisciplinare di dati differenti, raccolti in modo dinamico, semplice, veloce e puntuale può generare nuove forme di visione verso informazioni complesse, ma interpretabili, per usarle nella comprensione degli eventi, nella definizione delle strategie, nello sviluppo dei prodotti. Diminuendo i rischi e riducendo i tempi delle decisioni complesse.

Già oggi grandi basi dati inutilmente private non vengono messe in comunicazione per sfruttare il valore aggiunto che si portano dentro. Con l’avvento della nuova generazione dei sensori (bassi costi, nessuna manutenzione, dimensioni microscopiche) sarà inarrestabile la crescita di informazione che ogni organizzazione raccoglierà per utilizzarla privatamente e, purtroppo, solo parzialmente.

Mettere a fattore comune i dati, sviluppare strumenti di organizzazione e di analisi, interfacce di utilizzo, sistemi di interpretazione, sono tutte attività che nel breve periodo potrebbero generare quella vera rivoluzione informatica, che il vento di crisi invece che incentivare in questo momento non fa altro che congelare.

Ma allora, da dove cominciamo?

martedì 29 giugno 2010

Ha da passà 'a nuttata....

Ormai aspettiamo i cicli negativi del mercato con il capo chino, quasi a proteggerci.

E implacabilmente le crisi arrivano, con puntualità. E sempre più dure.

Per molti anni abbiamo sostenuto il cambiamento, cercando di cogliere nei periodi di crescita le opportunità per progetti di rinnovamento e di innovazione, e nei periodi di crisi le opportunità per consolidare ed ottimizzare.

Abbiamo sostenuto, ma non sempre con grande successo, l’importanza di gestire il cambiamento continuo. Purtroppo, e sempre più spesso, con la triste consapevolezza che il cambiamento non arriva mai con il trend di business positivo, come sarebbe logico.
“Perché cambiare proprio adesso che va tutto così a meraviglia?”

E allora il cambiamento diventava un obbligo alle prime avvisaglie di una crisi, quando la situazione contingente obbliga l’azienda a ridurre i costi, a ottimizzare i processi.

O almeno così è stato, fino ad un paio di crisi fa.

Ora non si reagisce più.

Si chiudono i progetti, anche quelli che potrebbero portare ad una riduzione dei costi, e ci si dedica ai fogli elettronici, con i dati di budget e con le revisioni.
Sempre al ribasso naturalmente, spesso senza logica e senza strategia.
Ci si chiude a riccio, nel disperato tentativo di spendere meno.

Ha da passà ‘a nuttata…

Va bene, facciamola passare questa nuttata, ma nel frattempo non potremmo sfruttare queste ore di veglia per riflettere e far riflettere?

Per provare a sorprendere il nostro management e le nostre Linee di Business quando si sveglieranno dal torpore della nottata, sicuramente ancora in balia delle ansie notturne.

lunedì 7 giugno 2010

ICT: perchè l'America non è mai l'Italia?

E’ sin troppo facile partire dall’esempio di un progetto di successo come Facebook, per indagare sugli oscuri misteri dell’innovazione e del business correlato.

Sfogliando Internet per qualunque tipo di prodotto, innovativo, di mercato, opensource, si trovano solo link a siti stranieri: l’America.

Sono dunque piu’ fantasiosi, intelligenti e creativi i tecnici americani?

Perche’ in Europa (e non dico in Italia per pudore) non si riesce a creare movimento, massa critica, interessi, verso nuove soluzioni e nuove idee?

Eppure le menti brillanti non mancano. Tanto che quando sono troppo produttive vanno proprio in “America” a sfogare le proprie esuberanze creative.

Non parlo della ricerca scientifica piu’ accademica, ma delle iniziative di business che vengono dalla base, dalle nuove generazioni.

Ma dentro le nostre aziende come vengono percepite le idee di innovazione.

Vengono coltivate? Sollecitate?

O invece, addirittura, ignorate!

Certamente un sistema Paese che crede nell’innovazione, che “prova” i prodotti anche i piu’ fantasiosi proposti quotidianamente sul mercato, aiuta a creare massa critica, ma soprattutto fiducia ed entusiasmo.

Un sistema paese dove l’innovazione tecnologica e’ vista come opportunità e non come costo e dove un giovane brillante può, con una buona idea, ambire ad un posto di lavoro serio, professionale e decentemente retribuito, e non semplicemente ad uno “stage”.

domenica 23 maggio 2010

La felicità è un attimo

E’ vero, mi sono commosso.

Ci sono emozioni che non si spiegano, che viviamo senza esserne totalmente consapevoli, a volte senza neppure cercarle.

Mi chiedo perchè un bambino, senza un motivo, senza un particolare contesto di riferimento, senza la TV, senza internet, un giorno decide che una squadra, quella squadra gli è simpatica.

Perchè ?

Cosa scatta nel cuore di quel bimbo, cosa lo porta a scegliere quei colori, contro tutti e contro tutto?

Ricordo mio padre che di calcio non e’ mai stato un grande appassionato o mio zio, invece, che da sempre mi parlava del suo mito finito sulla collina di Superga.
Ricordo il loro stupore nel vedere me, piccolo ingenuo, fare una scelta. 

La prima scelta mia, personale della mia vita. 

Eppure non avevo amici che mi potessero condizionare, ne’ un ambiente a cui fare riferimento, solo qualche notizia, la voce della radio. Voci di una squadra che aveva dominato il mondo (di quale mondo si parlasse non lo sapevo), ma anche una immagine in bianco e nero di quella stessa squadra che un giorno di maggio piangeva per aver perso tutto all’ultimo minuto.
Quale scintilla fosse poi scoccata in me, me lo domando spesso ancora adesso. 
A 45 anni di distanza.

E’ incredibile come si resti fedeli alla propria squadra. Più che a qualunque altra scelta di vita, più che al nostro piu’ grande amore.

Sono passati gli anni, sono cresciuto. Ho fatto le mie scelte, ho girato il mondo. In alcuni periodi ho ignorato il mondo del calcio, sport che mi diverte, ma che non mi ossessiona.
Ma anche nei periodi di maggior distacco un occhio al risultato di “quella” squadra, inconsapevolmente, mi scappava sempre.

E ieri sera mentre con aria distaccata, nella semi oscurità della stanza, “quella” squadra stava vincendo, per un attimo ho fatto come se nulla fosse. 

Non ho gioito, non sono saltato sul divano, non ho fatto nessun gesto.

Ho aspettato la fine della partita, ho visto le scene di esultanza e solo allora mi sono reso conto di vivere un attimo.

Io, da solo. Senza la necessita’ di doverlo condividere con il mondo. 
Quasi con pudore, ho prima sorriso e poi mi sono commosso.

Perche’ non ho potuto non pensare alla mia vita, a tutti questi 45 anni passati da quel giorno di primavera del 1965.

E mi ha fatto tenerezza questa mia debolezza.
E’ stato un attimo, stupido, forse sciocco.... un attimo.... di felicita’!

Ed in quell'infinito attimo di felicita’, ho asciugato quella lacrima, la più tenera lacrima che abbia mai solcato le mie rughe, tra le più leggere, forse la più vera.

Perchè, per un attimo, sono tornato quel bimbo, che di fronte allo sguardo stupido del padre diceva... “papà, ma io tifo per l’Inter”...

p.s 
dedicato a mio papà e a tutti quelli che un giorno hanno scelto una squadra, una maglia, un colore...
Non importa quale...

lunedì 10 maggio 2010

Il fiato corto dei vendor


A volte capita, non troppo spesso, di trovarsi nella piacevole situazione di dover analizzare il mercato per cercare qualcosa di nuovo: una soluzione intelligente, innovativa.

Niente di speciale, niente di rivoluzionario, ma qualcosa che nella gestione di un processo o di un servizio permetta di gestirlo in modo diverso, nuovo.

Il web è il primo passo, e le prime informazione che si raccolgono forniscono una immagine fin troppo ottimistica.
Poi si contatta qualche azienda IT e l’impresa di trovare qualcosa di originale comincia a diventare piu’ complessa.
I primi incontri, le presentazioni sono sempre generiche. Tutti sanno fare tutto.
Tutti sono leader di mercato in qualche modo.

Spesso, pero’, le competenze e le soluzioni tecnologiche sono frutto di progetti realizzati in passato o di accordi di distribuzione e di partnership.
La sensazione e’ che non esista nel mercato italiano la capacita’ o forse la volonta’ di “pensare oltre”, anche solo nel tempo.

Raramente le aziende IT hanno una visione del loro business che supera le previsioni di un anno. Quasi mai sono in grado di tracciare una roadmap della loro tecnologia, delle loro competenze, dell’evoluzione dei loro prodotti che superi i 18 mesi.
Quando ormai tutti i progetti IT più strategici delle più importanti aziende utenti vengono valutati su 36 mesi, e anche oltre.

Si tratta di sensazioni, non certo di analisi di mercato precise. Ma sensazioni che provengono dal quotidiano.

E non stiamo parlando di piani di investimento, di previsione di business, ma solo di ipotesi, di idee. Che darebbero un senso di maggior sicurezza nella scelta di una partnership a lungo termine.

Probabilmente sarebbe sufficiente allontanarsi per un attimo dalla legittima necessita’ di fare business in tempi stretti, sfruttando referenze e situazioni contingenti; dedicando semplicemente un po’ di tempo a riflettere, ad ipotizzare un futuro non necessariamente prossimo.

Potrebbe non costare molto e dare risultati inattesi.

E forse si potrebbe scoprire che per fare innovazione non servono risorse economiche ingenti, basterebbe il coraggio di pensare.

venerdì 30 aprile 2010

Da piccolo volevo fare l'astronauta

Ogni bambino ha un sogno. 

Quando ero piccolo andavano di moda il pompiere, l’astronauta (in piena epopea lunare), il calciatore e in pochi casi il poliziotto.

Il mondo reale, quello dell’industria, dei media, della globalizzazione non solo non esisteva, ma non era neppure percepito… 
Io sinceramente speravo di fare l’astronauta, ma non ne ero proprio sicuro.

Ora, a distanza di molti anni, forse comincio a capire il motivo dei miei dubbi.

Ebbene sì, faccio il CIO (direttore sistemi informativi), ed è incredibile quante piccole cose in comune ci siano con il mestiere dell’astronauta.

Noi (CIO e astronauti) siamo sempre molto soli quando succede qualcosa. Siamo soli quando dobbiamo decidere cosa fare, pur avendo alle nostre spalle organizzazioni complesse.
Spesso non sappiamo bene perchè ci buttiamo nelle nostre avventure, ma lo facciamo per lo spirito di andare oltre sentieri conosciuti, per arrivare per primi, per provare l’emozione di qualcosa di nuovo, per sperimentare… 
Ma poi rimaniamo astronauti (e CIO) a vita.

Certo piacerebbe a un CIO (e forse a un astronauta) avere un sogno, aspirare a ruoli nuovi e diversi. Vedersi riconoscere le competenze non solo tecnologiche che abbiamo sviluppato, vestire panni diversi. 
Passare dietro la scrivania, quella dove siedono coloro che contano, che decidono. 
Perché chi più di noi conosce l’azienda in cui operiamo: i processi, le persone, il business?

E’ con questa consapevolezza che vorrei utilizzare questo spazio per proporre temi e provocazioni che vadano al di là delle tradizionali discussioni sulle nuove tecnologie, sul nuovo standard, sul mondo del 2.0…

“In Italia è impossibile innovare, si può solo resistere”, Josè Mourinho.

Sarà vero?

lunedì 8 marzo 2010

La consapevolezza di essere Minoranza

Non sono un giurista e neppure un esperto di politica.

Ho i miei bravi principi etici, i miei ideali di vita che si sono formati quando la “piazza” dava la possibilita’ di confrontarsi su temi, principi e valori. E non solo urlando slogan e difendendo posizioni preconcette.

Eppure si ricorda quel periodo come “gli anni bui” della storia d’Italia.

E’ vero, furono anche gli anni di piombo, di paura, di confusione, di incertezza.
Ma il popolo, la societa’, la cultura avevano una loro dignita’.
La parola liberta’ veniva usata in termini universali, non per difendere se stessi, ma per difendere gli altri.
E in quella liberta’ si sono formati gli animi delle nuove generazione (ehi, a pensarci... anche io sono stato per un certo periodo una “nuova generazione”).

Ci si aggregava con la liberta’ di discutere, di poter argomentare le proprie posizioni senza necessariamente doversi schierare.

Ora mi ritrovo spesso a discutere con me stesso, non riuscendo piu’ a dialogare con nessuno, a far sapere ad altri pensieri, visioni, interpretazioni.
Esistono solo piu’ schieramenti, e piu’ passa il tempo piu’ gli schieramenti diventano violenti, ridotti all’essenziale.

Ci sono i NOTAV e ci sono i SITAV (non si discute, punto).
Quelli contro gli OGM e quelli a favore.
Quelli che appoggiano il cavaliere e gli sporchi comunisti.
E la lista sarebbe infinita. 
Sempre e solo grandi schieramenti dove il dialogo e la dialettica non trovano piu’ spazio.

Ecco perche’ e’ difficile far crescere una coscienza popolare, un dibattito concreto.
Ecco perche’ alla fine pur di doversi riconoscere e poi “iscrivere” ai diversi schieramenti, la superficialita’ e’ fondamentale (altrimenti ci si sente dei disadattati). 
Ecco perche’ l’ignoranza e’ strumentalizzata (altrimenti bisognerebbe discutere).

I cultori dell’analisi, dei valori, della cultura, della coscienza sono esclusi da questa evoluzione politica. 
Gli insiemi che si formano sono guidati dall’inerzia, dalle forze fisiche e dagli slogan, non piu’ dalle opinioni.
E la democrazia diventa una semplice scelta dello schieramento. 

Non contano piu’ le persone, le idee, i valori, ma neppure i risultati e i riscontri. 
La vecchia democrazia lavorava sulla tradizionale distribuzione dei valori, sul rispetto delle minoranze, sulla liberta’ di espressione. Ma ancora di piu’ sulla liberta’ di essere.

Ora invece la democrazia e’ raccogliere consensi. Per poi gestire il potere.
Consensi che e’ facile, sempre piu’ facile, raccogliere dove gli schieramenti sono netti.

Perche’ quindi indignarci per chi gestisce la cosa pubblica? e perche’ indignarci per come la gestisce.

La maggior parte degli italiani, il nostro popolo, ha scelto questo tipo di democrazia. 

La semplice scelta del campo in cui stare, dello schieramento in cui riconoscersi.
E conseguentemente chi domina lo schieramento ha il potere di fare quello che vuole, quello che il popolo che lo ha eletto pretende che faccia: ovvero difendere lo schieramento.
Non esistono piu’ valori su cui costruire una dialettica, non esistono temi su cui discutere.

Sentirsi fuori dal tempo e fuori dagli schieramenti e’ quasi una condizione di debolezza, quella che invece, un tempo, era considerata una forza.

Chi non si riconosce in questo nuovo universo democratico, dove l’istinto domina sulla ragione, il televoto popolare sulla cultura e sulla qualita’, deve smettere di giocare con le vecchie regole. E allo stesso modo deve capire, anche se non accettare, le nuove regole del gioco.

Chi non riesce a collocarsi in qualsiasi schieramento, chi prova fastidio all’irrigidimento delle posizioni, chi cerca di capire prima di parlare, deve avere la consapevolezza di essere ormai una minoranza.

E la consapevolezza di essere una minoranza e’ forse l’unica forza che puo’ contrapporsi ad un decorso oramai inarrestabile.

Solo con la consapevolezza di essere minoranza si puo’ decidere di agire senza condizionamenti, senza stupide prudenze, con la liberta’ e la limpidezza di non doversi riconoscere in qualche schieramento per potersi esprimere.

Essere minoranza permette di decidere tempi e modi diversi per la propria strategia, fuori dagli schemi si potra’ decidere se e quando si puo’ lottare. Se e quando e’ meglio arrendersi.

Con la certezza che la cosa che piu’ differenzia questa minoranza dalla maggioranza e’ la rassegnazione. 
Questa minoranza non si rassegnera’, mai.

Enrico, consapevole di essere minoranza.