sabato 19 dicembre 2020

"Vengo anch'io... no, tu no."

Ho comprato dei libri per le prossime settimane di “riflessione”, libri che dovrebbero evitare proprio che faccia troppe “riflessioni”.

Come stamattina che mi sono svegliato con il dubbio.

Ma la notte di Natale, seguendo la stella Cometa, quale tra i Re Magi: Melchiorre, Baldassarre e Gaspare, deve rimanere a casa, non potendo, poveri, il giorno dell’Epifania presentarsi in tre.

Ho già dato per scontato che i pastorelli, poveretti pure loro, dovranno tenersi a debita distanza e limitarsi a mandare le pecore a fare visita.

Forse una deroga per una visita da parte di DUE loro rappresentanti magari solo il giorno di Natale, potrebbe essere concessa all’ultimo momento dalla divina provvidenza. Fosse anche per recuperare le pecorelle.

Ma i re Magi, che non erano poi tanto Re, quanto Saggi e astrologhi e che già devono “autogiustificarsi” con Erode per la loro scappatella a Betlemme, come devono organizzarsi?

Immagino i loro dubbi, dopo aver scoperto che possono fidarsi, con fede e speranza, del “navigatore” Stella Cometa per percorrere quei 10 chilometri che separano Betlemme da Gerusalemme. 

Ed io, nel frattempo, tra le riflessioni della vigilia mi chiedo come mai al “furbo” Erode che vede una stella cometa fermarsi sopra una capanna di Betlemme non venga il dubbio che il Cristo che tanto lo preoccupa non sia proprio sotto la Stella Cometa.

Ma torniamo ai Re Magi.

Melchiorre nella sua tunica viola, penitente, adorante e pieno di luce, deve portare l’ORO al “re dei Re”. Devozione, rispetto, un po’ di giustificata adulazione e forse anche una piccola rivincita alla nascita in una capanna. 

Non posso non esserci” sostiene Melchiorre, “sarebbe come sminuire un momento che cambierà la storia dell’umanità.

Gaspare è il piu’ timido dei tre, molto devoto e adorante, nonostante il mantello
purpureo se ne sta in un angolo pronto con il suo prezioso INCENSO a ricreare quella atmosfera carica di profumi e solennità.

Non riesco proprio a immaginare un Re senza l’incenso, il suo profumo, il fumo che sale fino alle narici del Padre”.

E poi Baldassarre, in un angolo con la sua preziosa e delicata MIRRA, forse il più puro, il più vero dei Re Magi. Ammetto, mi è sempre stato simpatico Baldassarre, non solo per il dono più utile e meno conosciuto, ma per la sua sincera purezza, il bianco della sua tunica, il blu del suo mantello.

Vengo anch’io”, dice Baldassare con umiltà, “non ho Oro e Incenso, non sono un Re, ma la Mirra solo io posso portarla, solo io ne conosco i segreti, e Lui, il Cristo (Unto, ndr.) non puo’ essere il Re in terra senza il mio Unguento, non puo’ essere Cristo”.

Ed io con tenerezza immagino la Befana, chiusa nella sua solitudine, china sotto il peso della responsabilità, vecchia e stanca, a decidere: quale dei TRE.

Quale dei TRE deve rimanere a casa?

sabato 5 dicembre 2020

Carta di giornale


Vecchie abitudini, come comprare il giornale all’edicola.
Non succedeva da tempo, da molto tempo.
Eppure bastano due passi fuori dai portici, l’edicolante con lo sguardo distratto, chiuso dietro al vetro appannato.
E tu li davanti, lo sguardo panoramico sulle riviste patinate che occupano tutto il banco, le piu’ disparate, peraltro senza un interesse particolare.
Solo di fianco, ormai appartata, la sezione dei quotidiani con i titoloni in vista, con davanti la pila del quotidiano della tua città.
Il piacere di fare la “lista”. Mica un giornale, non certo “la Stampa, grazie…” e via.
No, proprio la lista con i tuoi giornali che si impila sulle riviste patinate.
E poi il tuo giornale, uno di quei giornali che vuoi tu, sembra esaurito. E allora lo richiedi, con convinzione, perché ormai lo sai che senza un perche’ quel giornale sta dentro l’edicola e non la fuori con gli altri.

E poi via con il pacco sotto il braccio. 
Dove il giornale esterno, quello che tutto vedono non è casuale, ma inconsapevolmente quello che leggerai per primo.

E quell’odore di inchiostro, che con il tempo si è sempre piu’ attenuato. Ma inconfondibile.
Sensazione che mi riporta a ricordi lontani e teneri, quando la mia compagna in attesa di nostra figlia moriva di questa voglia: annusare l’inchiostro dei giornali. Li compravo solo per vederla immergersi con il viso e poi ridere della sua debolezza.

La carta, che fa rumore quando la sfogli e i fogli che si scombinano mentre cerchi di trovare il giusto equilibrio tra le sezioni.
La lettura sul tavolo, quella piu’ tradizionale, con le paginone aperte, girate con gesti ampi e con aristocratica lentezza.
O quella in poltrona, con il giornale ripiegato e spiegazzato tra le mani, con l’articolo d’interesse bene in vista, ma sempre con l’ultima frase nella piega avversa.
E poi la lettura nel letto, seduto con il giornale appoggiato sulle coperte o con le pagine come soffitto.

Ma con la carta e l’inchiostro.

Il quotidiano, proprio il quotidiano con le sue notizie del giorno, che non si troveranno sul giornale di domani. Fresche, aggiornate, originali.
Non certo come le “news” dell’online, spesso in home page per settimane senza nessuna correlazione con la quotidianità.
E alla fine il piacere di strappare una pagina per leggerla il giorno dopo, se proprio di interesse per un approfondimento. O per riporla in mezzo ad un libro per qualche motivo particolare.

Carta di giornale.

Sabato 5 Dicembre 2020 – Anno L – N. 290.


domenica 22 novembre 2020

Il nuovo "secolo scorso"...

ma questo lo usavano nel secolo scorso…
Quante volte credo di averlo detto anch’io nella mia vita, da ragazzino. 

Perche’ per me,  nato nel mezzo di un secolo, non era cosi’ lontano il “secolo scorso”, quel secolo scorso, l’unico secolo scorso.

Anche se dal secolo scorso una impressione e velocissima evoluzione tecnologica e sociale aveva cambiato la storia dell’umanità come mai era successo prima.

Facile pensare al secolo scorso con il naturale distacco ricordando con romantico affetto: il carbone, le carrozze, il Risorgimento, Garibaldi e Cavour.

Per questo non avevo mai dato un senso diverso al “secolo scorso” neppure all’alba di questi nuovi anni ’20.

Fino ad oggi pomeriggio, quando tre ragazzini in bicicletta, commentavano non so quale “gingillo” con aria divertita e distaccata: “ma questo lo usavano nel secolo scorso”.

Detto con noncuranza, senza nessuna malizia o sarcasmo. Con lo stesso mio distacco verso un mondo che è cambiato.

Ho alzato lo sguardo nella città semideserta, i viali relativamente vuoti, con il sole del crepuscolo che abbagliando copriva i dettagli e rendeva approssimative le forme. E sul momento mi sono trovato sospeso, confuso, senza piu' riuscire a mettere a fuoco il secolo “giusto”.

Per un attimo, tra i lampioni e il controviale, ho avuto la sensazione, quasi l’impressione che da un momento all’altro sarebbe comparsa una carrozza con i cavalli ad attraversare il corso.

Poi le risate dei ragazzini mi hanno riportato al presente, alle loro biciclette iper-tecnologiche tutti e tre con il caschetto d’ordinanza (ma quando mai ho messo il casco per andare in bicicletta, nel secolo scorso..)

Ecco, improvvisamente ero io quello del secolo scorso… con i miei ricordi dei gettoni telefonici, delle musicassette, della Duna e dell’Alfasud. E con me gli anni del boom e gli anni di piombo, i Pink Floyd e i cantautori, le notti magiche e Tomba la bomba...

Improvvisamente l'ottocento, il mio “secolo scorso” è diventato definitivamente e semplicemente  l’ottocento e i meravigliosi anni '80 e altri indimenticabili decenni del 1900.... declassati a nuovo “secolo scorso”.

E cosi', con la sensazione del rumore degli zoccoli ho ripreso il mio dignitoso contegno, sistemato la tuba, riposto l’orologio nel taschino e stretto nel mio mantello mi sono avviato verso casa.


domenica 15 novembre 2020

Ridire, irridere, deridere, sorridere, sogghignare….



Ormai è prassi comune, quasi un’arte. Per comunicare bisogna assumere quell’espressione a metà tra il divertito e lo strafottente.
Praticamente una maschera quasi clownesca, lombrosiana, accompagnata a strizzatine d’occhio cariche di complicità.
Come se il messaggio non fosse per l’interlocutore, che ovviamente è scontatamente d’accordo, ma per tutto il resto dell’umanità che per ignoranza, leggerezza, stupidità non capisce, non riesce proprio a capire.
E cosi’ si disseminano “verità”, senza neppure entrare nel merito, ma solo irridendo coloro che ancora non capisco, che non ci arrivano.
Si è perso il senso della dialettica, del partire da un postulato, da considerazioni ipoteticamente oggettive per poi sviluppare un ragionamento ed esprimere una opinione.

Ecco una opinione, non la verità assoluta.

Perché l’opinione si esprime con serietà, con riflessione.
Comunicare le proprie convinzioni soprattutto quando consapevoli di metterle in pubblica piazza, richiede serietà.
Inculcare false verità con il siero della complicità, richiede solo la capacità di sogghignare.
Il sorriso perenne, per qualunque argomento, come una smorfia scontata.
Qui siamo oltre alla risata isterica e patologica del mitico Joker.
Siamo alla deliberata mistificazione della realtà, semplicemente dribblata dalla derisione.
Si spacciano “verità” come se fossero scontate, universali. Quando la verità non esiste in senso assoluto, perchè tutto cambia sempre.
Esistono eventualmente cose esatte, ipotesi verificate sperimentalmente, che non sono verità ma solo dimostrazioni di ipotesi. Ipotesi che poi possono avvalorare, o meglio, giustificare le opinioni che ne derivano.
Ormai del fatto che esista ancora qualcuno in grado di comunicare opinioni non interessa più a nessuno.

Basta un ammiccamento e una risatina e siamo automaticamente dalla parte della ragione.

Altro che maieutica…

venerdì 23 ottobre 2020

Incontri ravvicinati del terzo tipo...


Oggi Pelè, si O’ Rey, compie 80 anni.

Ricordo addirittura un disco, un 45 giri venduto come gioco che oltre al tema musicale regalava uno specchietto da mettere sul giradischi che riflettendo piccole figurine simulava una “rovesciata” ad ogni giro del disco.
Quante volte l’ho fatto girare, avevo 10 anni, o giù di li.

E in Tv Pelè non lo avevo mai visto, vivevo e sognavo di racconti.
Pelè, il più grande di sempre, i 1000 Goal.
Amo il calcio come ne amo i talenti a prescindere dalle bandiere. Poco sapevo del Santos, la sua squadra, ma che importava. 
Lui era Pele. Lui è Pele.
Poi parleremo anche di Maradona o di Ronaldo (non CR, ma proprio di Ronaldo) i mei due altri grandi. E poi ci sarebbe anche Lev Jašin nella mia top list, il Ragno Nero, perche’ stiamo parlando di leggende e non solo di talenti oggettivi.

Ma torniamo a Pele. Non una leggenda, ma LA leggenda.
Ho imparato a conoscerlo ai mondiali messicani, nella finale con l’italia dove segna di testa non tanto perche’ era andato altissimo… ma perche’ la, in alto, ci era rimasto una eternità fino a colpire il pallone. Burgnich aspetta ancora adesso che torni a terra…
E poi l’ho ammirato in infinte raccolte delle sue gesta, carrellate di immagini in bianco e nero dove faceva girare la testa a difensori e portieri.

Pele’.

E non importa se il millesimo goal lo ha segnato su rigore. Suoi i 1000 goal in carriera, quando si giocava molto meno di quanto si giochi oggi.
Ancora adesso “sento” i miei brividi di bimbo sognante a pensare al suo nome, alle sue giocate.
Perché i miti e le leggende che ti costruisci da bambino restano nell’anima.
E Pele’ è sempre rimasto nell’anima.

Anche quel giorno di luglio del 2002, in una grande città della Korea, in attesa davanti agli ascensori dell’hotel.
Con il pensiero nei miei pensieri e lo sguardo incurante dei dintorni, come capita spesso quando si entra in un ascensore affollato e si evita lo sguardo degli sconosciuti.
Si apre la porta e con lo sguardo basso mi infilo tra i due già presenti consapevole, quasi certo, del loro sguardo verso l’alto. Sembrava non si conoscessero.
Non credo sia passato un “piano” quando il respiro mi si è fermato mentre un sorriso involontariamente, incredibilmente mi compariva sul viso (e io non sorrido quasi mai, tanto meno negli ascensori affollati) nell’incrociare lo sguardo a destra e a sinistra.
A sinistra per contraccambiare il sorriso condiviso di Pele’, a destra l’espressione arcigna e corrucciata di Platini.
Il respiro trattenuto, il sorriso stampato, l’espressione idiota, un attimo, un pezzo di vita.

Non ricordo quanti piani, non ricordo se in salita o discesa. 
Porto con me l’immagine, da me ricostruita, di tre uomini che escono dall’ascensore in giacca e cravatta: io, Pelè e Platinì.

Auguri O’ Rey.

domenica 20 settembre 2020

La ragazza del secolo scorso


“Ho cercato di fare prevalere le ragioni, ma ho avuto grandi torti, del resto chi può negare di sé di non averne avuti". (Rossana Rossanda)

Non avevo soldi al tempo del liceo, erano gli anni ’70.
Come tutti quelli che invecchiano, ci sono ricordi che sembrano freschi di un tempo appena passato. Lo sai che bastano pochi attimi per rimettere quei ricordi nello spazio temporale che meriterebbero. 
Ma tu indugi, prendi tempo. E li tieni li, freschi e baldanzosi.
Non c’è neppure bisogno di chiudere gli occhi, non serve 
E’ un pezzo della tua vita che riaffiora, non è nostalgia, ma consapevolezza.
Ed ecco che mi vedo come fosse ieri, con la mia prima copia del Manifesto, nella tasca dell’eskimo, con il titolo del giornale che spunta fuori ed io con quell’aria finalmente fiera di aver fatto la mia scelta.
Era maledettamente bello il Manifesto, bello da vedere. Forse non lo ha detto nessuno.
E’ ancora bello adesso. A volte lo sguardo mi sfugge passando vicino ad una edicola e lo riconosco sempre, pur nella ormai povera raccolta di quotidiani cartacei. Non puoi non notarlo.
Forse perché ha mantenuto negli anni sempre lo stesso stile ed è ancora bello, come bella è la versione online, come sarà bella qualunque versione che il tempo e la tecnologia proporrà.
O forse perchè io lo vedo come se stesse ancora spuntando dalla tasca del mio eskimo.
Chissà.
Rappresentava per me, ignorante politicamente, una visione pura in un periodo di grandi schieramenti. Un riferimento per tutte le domande che ci si poneva in quel momento storico, ricco di curiosità e povero di risposte.
E la bellezza della semplicità grafica aveva più forza dei contenuti che spesso andavano oltre la mia ancora limitata capacità critica.
Rossana, Luciana, Valentino, Lucio, erano per me un tutt’uno, quasi la stessa persona. 
Eleganti come il loro giornale, colti, profondi in ogni ragionamento.
Qualcosa di diverso. 
Come i corsivi di Stefano Benni che leggevo e rileggevo come una sorta di breviario personale.
Mi crogiolo ancora per qualche minuto affacciato a questa finestra temporale che spazia sul Novecento, dove lei, “la ragazza del secolo scorso”, mi saluta senza troppi sorrisi.
E non importa se quel messaggio politico sia fallito o cosa sia diventato. 
Se il “manifesto” interpreti ancora quei sogni. 
Non lo so, e mentre socchiudo la finestra resto con la sensazione che sebbene il mondo sia oggi globalmente piu’ ricco, sia ancora molto ingiusto. Perchè quelle dialettiche legate allo scontro sociale sono rimaste nel “novecento”, anche se oggi i ricchi sono sempre piu’ ricchi e i poveri sempre piu’ poveri.

Ciao Rossana, saluto con te la classe, la coerenza, la serietà, la responsabilità delle proprie azioni, giuste e sbagliate.
Avevi avuto il coraggio e la forza di accompagnare Lucio al suo ultimo volontario viaggio, lui ora ti aspetta da qualche parte, ne sono certo.

Salutamelo.


sabato 8 febbraio 2020

I ragazzi di Via Gramsci in quei meravigliosi anni '60


Via Gramsci era una grande strada per me “bimbo”, forse anche piu’ bimbo dei miei coetanei.
Tanto che da un cancello all’altro della strada si poteva giocare a pallone “porta a porta” come si diceva in quel tempo.
Anche i marciapiedi di Via Gramsci erano grandi con le mattonelle a quadratini e le fontane dell’antincendio.
Ero piccolo e tutto mi sembrava grande, via Gramsci era quasi un parco.
Era un mondo che partiva dai “giardinetti” al confine di Via Torino, praticamente le colonne d’ercole, al di la del quale in una buia bottega lavorava Caccialupi (che non era un soprannome) ovvero il mago che aggiustava le biciclette.
Bellissimo quel mondo, quando in primavera tutti i “ciliegi di spagna” erano fioriti e facevano tetto bianco a tutta la strada.
La parte alta di via Gramsci era meno frequentata, forse per per la troppa vicinanza con via Torino, o per la semplice distribuzione delle famiglie con figli che popolavano la via Gramsci di “dopo la curva”, praticamente dalle villette dei DeNina in giu.
Verso via Piave si spegneva, senza mai arrivare al sentiero che portava agli orti dietro la "Monce", territorio inospitale e poco frequentato. 
Il tempo dei campi da tennis e del regno di Remo Castagneri era ancora lontano.
Poi c’era via Conte Verde, praticamente il “dietro” di Via Gramsci. Terra straniera dalla quale arrivava qualche “immigrato” di tanto in tanto per unirsi ai gruppi di Via Gramsci.
Eravamo bambini, coetanei. Con fratelli piu’ vecchi e piu’ giovani, dove la differenza di un paio d’anni creava comunque fossati enormi e differenza di vita e di associazione che a tutti noi, in ogni caso, sembravano assolutamente normali.
Inoltre chi fosse Antonio Gramsci l’ho scoperto solo dopo tanti anni.
Il pallone, il tennis e le biciclette rappresentavano le nostre fantasie. Tentativo di trasposizione di racconti che sentivamo alla radio o che ascoltavamo nei commenti dei nostri genitori (altro circolo di via Gramsci di quel periodo)
Il pallone regnava sovrano con la strana anomalia delle simpatie per Inter e Milan e non per Juve e Toro come scoprivamo sorpresi andando a scuola.
Se io mi ero affezionato all’Inter perche’ perdeva quando stava per vincere (una sindrome che poi mi ha accompagnato per tutta la vita), non capivo per quale motivo un paio di miei amici fossero invece tifosi del Milan.
Insomma io ero Sarti, Facchetti e Mazzola, loro erano Cudicini, Trapattoni e Prati. 
Sempre nel porta a porta.
C’era Andrea che veniva dalla via Gramsci alta, si diceva che avesse una sorella piu’ piccola che non vedevamo mai, ma al tempo le bimbe non ci interessavano molto. 
E su questo fortunatamente abbiamo tutti cambiato idea crescendo.
Lui era del Milan, chissà perche’. Era alto, figo e bravo a fare tutto e vinceva sempre.
Poi c’era Dodo, un po’ figlio di papa’. Era la famiglia con la villetta piu grande e piu’ moderna e per noi era quello “ricco”. Era grande amico di Andrea, anche lui del Milan se non ricordo male.
Lo prendevamo un po’ in giro per i suoi modi di fare, ma poi lui aveva il pallone piu’ bello e le miniature dei ciclisti con cui giocavamo sui marciapiedi tirando i dadi. Quindi avevamo verso di lui una oscura ma bonaria invidia che nessuna discuteva mai.
Ci era capitato, chissà come, un pallone leggero di plastica che riportava foto e nomi dei giocatori della Juve. Noi, non molto juventini, lo usavamo per tirare i calci ai giocatori. Il mio calcio preferito era per Del Sol, solo perche’ era un nome strano, non avendolo mai visto. Mai avrei tirato un calcio ad Anzolin visto che io volevo fare il portiere e tutti i portieri erano eroi per me.
Dalla parta alta della via scendeva a giocare a pallone Ornella, una tosta per i nostri parametri, nel senso che tirava forte e quando prendeva la tibia non chiedeva scusa. Pare che anche lei avesse sorelle piu’ vecchie e piu’ giovani e che non vedevamo mai.
Che fosse una bimba era marginale visto il nostro scarso interesse verso queste differenze in quel tempo.
Avevamo un portiere famoso in Via Gramsci, almeno per me. 
Era GigiCarlini, tutto attaccato.
Era il portiere del Condove, matto come tutti i portieri, con i capelli lunghi. O almeno cosi’ me lo ricordo. Era un un po’ il mio GigiMeroni. Non tanto piu’ vecchio di me ma abbastanza per farmelo sembrare adulto.
In quel periodo la cosa o meglio la casa piu’ bella era quella dei Piazza.
La mamma di Cesare (le mamme e i papa’ non avevano un nome, se non quello di “mamma di” e “papa di”) era la persona piu’ tenera, cortese, sorridente e tollerante fra tutti gli abitanti della via, e forse fra tutte le persone che ho poi conosciuto.
In casa di Cesare si poteva giocare, mettere a soqquadro, fare rumore senza che la mamma ci riprendesse. Anzi spesso si finiva con una spremuta o una bibita per tutti.
Aveva il cancello sempre aperto. Era una cosa strana, quando i cancelli erano spesso ben chiusi, tanto che quando il pallone finiva in una corte per sbaglio erano momenti di grande crisi.
Persino il garage del “papa di Cesare” era uno spettacolo, con quel suo hobby di costruire vascelli in legno e con tutti gli strumenti, era per noi un parco giochi. Quanti semilavorati che abbiamo distrutto senza mai venire rimproverati.
C’era il pianoforte in casa (la mamma di Cesare suonava ed insegnava) e spesso una cugina di Cesare, Giovanna, veniva a trovarci da via Conte Verde e lei sapeva già suonare il piano, per noi qualcosa di miracoloso.
Poi c’era Ortensia, la sorella di Cesare, che rappresentava nella sua freschezza un punto di riferimento per tutti i ragazzi del paese che arrivavano in moto/bicicletta/monopattino e facevano finta di tirare un calcio al nostro pallone di plastica per far bella figura con lei.
Insomma un bel traffico.
Verso la fine di via Gramsci c’era poi la casa di Alberto, ovvero i Fontana. Anche quella casa molto aperta e disponibile, aveva il giardino piu’ grande della via, avendo sacrificato l’orto.
Il babbo di Alberto, lui lo chiamava cosi’, “babbo”, e a noi sembrava strano, era cacciatore e pescatore. Un bel signore elegante e con i baffi.
Alberto aveva la piu’ ricca collezione di Lego di tutta la via, oltre al giardino piu’ bello.
Ricordo che a lui non piaceva molto il calcio, ma con la bicicletta e soprattutto con il tennis era maestro.
Fu il primo ad andare via da via Gramsci, quando trasferirono il padre per lavoro. Ci facemmo una promessa, mi ricordo bene, che ci saremmo rivisti a 18 anni. Quei patti che fanno i bambini con la stessa serietà e formalità di un patto di pace galattica.
La sera Via Gramsci si riempiva di vita, soprattutto in primavera. I “grandi”, quelli che avevano 4 o 5 anni piu’ di noi uscivano per incontrarsi, per chiacchierare seduti sui muretti.
Erano gli adulti o meglio quelli piu’ vecchi, simbolo di quello che avremmo raggiunto a breve.
Erano già ragazzi e ragazze che si sorridevano e non necessariamente “giocavano".
Le donne erano tutte bellissime, anche solo in quanto donne.
Non ricordo i loro nomi, perche’ non avevo accesso a quei gruppi.
Ricordo la “DeNina”, altera ed elegante, bionda e sinuosa. Futura professoressa di francese che mi ha sempre messo un po’ di imbarazzo e mi faceva abbassare lo sguardo quando mi interrogava.
C’era la figlia dei “Cavarero”, ma lei era già uscita da via Gramsci in quel periodo.
E poi la sorella di Rapelli, capelli ricci e occhi rotondi.
(lui Gianni era piu’ vecchio di noi e non frequentava molto la via).
E poi c’era la sorella del mio idolo GigiCarlini, sbarazzina e piena di vita.
C’erano le figlie di Viansone, ma erano forse di qualche anno in piu’ e poi il loro papà era quello che non ci restituiva i palloni quando andavano nel suo giardino. E quindi le consideravamo un po’ nemiche.
Verso via Gramsci bassa ricordo le sorelle di Alberto, anche loro di qualche anno in piu’ e non molto coinvolte nella vita di via Gramsci.
E poi c’era Anna, figlia di Garnero, anche lei con mamma pianista. Ho imparato a conoscerla anni dopo, lei e suo marito, quando sono tornato a vivere in Via Gramsci.
Timida e tenera, sorridente e gentile.
Terra di conquista per i maschi di via Gramsci, gli adulti, era invece via Conte Verde.
Sia perche’ vicina, ma anche per quello che offriva.
Margherita (Cassina) è stata il sogno di tanti, dall’altra parte della rete.
Mentre la figlia di Ferraris si sposava con il figlio dei Garnero quando noi giocavamo a pallone.
Elisa De Amicis, nostra coetanea, avremmo voluto tutti conoscerla meglio con il senno di poi, ma a quell’età, come dicevo, non avevamo ancora certi interessi.
Dei fischi della Monce non ne parlo perche’ di nostalgia ce n’è fin troppa, ma della famiglia Chiaberto/Ariotti si.
Renato e sua moglie erano forse un po’ piu’ giovani dei nostri genitori, e i loro tre figli li abbiamo visti nascere.
Ma il loro sorriso, la loro gentilezza e disponibilità hanno accompagnato un pezzo della mia vita, non solo il mio periodo “bambino”.

Ps: Sono tornato in Via Gramsci da adulto, sempre sotto lo sguardo vigile della sacra che ha visto crescere mia figlia, ho conosciuto altri vicini e cercato parcheggio, la dove giocavamo “porta a porta”.
Mai avrei pensato di usare toni e parole che erano quelle dei miei vecchi, ma il tempo passa.
E così, senza un motivo, stamattina mi sono svegliato con questi pensieri e con un piccolo sorriso.
Avendo voluto trascriverli velocemente prima che svanissero mi scuso per gli errori e le omissioni, con la speranza di non avere turbato nessuno.