Conosco il silenzio cosi’ bene che quasi riesco a dargli un volto.
Il silenzio di quando mi sveglio al mattino e conosco ormai
tutti i piccoli rumori che sommessamente trasudano dall’esterno.
Non uso quasi mai la sveglia e non cerco ne’ musica ne’
radio per farmi compagnia.
Il silenzio e solo la macchinetta del caffe’ o il bollitore
a distrarmi dal mio essere con me stesso.
Lo stesso silenzio della sera, quando spengo la luce dopo
l’ultima occhiata al telefono, piu’ per abitudine che per la ricerca di
qualcosa.
Non cerco neppure di fare rumore, anzi mi muovo, se devo
farlo, quasi con circospezione come se non volessi svegliare quel “me” che
ancora dorme o che si sta per addormentare.
Non sono triste, non vado in paranoia. Non ho paura della
mia solitudine.
A volte sono fiero della tranquillità con cui dormo da solo,
del mio sguardo tutto sommato spavaldo verso il nulla, lasciando che i miei pensieri
si muovano liberi, mentre sorseggio il caffe o il te, senza neppure guardare
nella tazza.
Non abbasso lo sguardo nel mio silenzio.
Mi chiedo spesso quanto potrà durare questo mio equilibrio.
E’ vero che sono molti anni ormai che piu’ o meno vivo da
solo, tanti da avere quasi dimenticato la normale abitudine a condividere. Vivo
la presenza di una compagna o di un amico con gioia e con naturalezza e non
come semplice visita, ma anche con un velato ancorché istintivamente nascosto
senso di ospitalità, quasi con l’eccesso del piacere di condividere il momento.
Non mi sorprende pensare che la mia vita normale, è fatta di
porte chiuse a chiave.
E’ buffo pensare che quando entro in casa, pur con tutto il
piacere della famigliarità dell’ambiente, è un po’ come entrare in una stanza
di albergo.
La chiave che gira piu’ volte, la porta che si apre sul
buio, l’interruttore sulla destra, la luce che si accende. La borsa posata sul
divano.
E il silenzio.
Abitudini che mi sembrano ormai famigliari a cui non faccio
caso se non quando ci penso come adesso.
E se ci penso è perche’ ne voglio essere consapevole non
certo per lasciarmi prendere dalla compassione per me stesso e neppure per la
nostalgia.
La mia vita me la sono scelta e ho la fortuna di potermela
scegliere ogni giorno.
Ma è naturale di tanto in tanto pensare al ritorno a casa dove
la porta è solo appoggiata, la luce già accesa, i rumori di vita, i passi che
scendono le scale, un saluto normale dalla stanza del piano di sopra.
Una tavola apparecchiata e un bicchiere di vino già mezzo
riempito o mezzo svuotato.
Non mi manca il saluto caloroso, quello lo conosco ed è un
piacere riceverlo di tanto in tanto, nelle occasioni in cui mi ritrovo con altre
persone.
Quello a cui penso è proprio a quella naturale e scontata
presenza che spesso viene vista con un po’ di rassegnata tristezza da chi la
vive tutti i giorni.
Non dico che mi manca, ma ci penso.
Non potrei vivere con tranquillità la mia scelta di vita se
non ne fossi completamente consapevole, anche nel confronto con scelte di vita
differenti.
Ci sono scelte che non si possono fare e si subiscono. Ho
imparato con il tempo a gestire pure quelle.
Come non sentire piu’ la voce dei miei genitori, forse la
cosa che piu’ mi manca da ormai troppi anni.
Questo pensiero pur con tutta la dolcezza che ormai si porta
dietro mi fa sempre molta tenerezza.
Non posso farci niente è normale che sia cosi’.
E il silenzio mi aiuta a “sentire” la loro presenza, quando
ne ho bisogno.
E’ un periodo importante della mia vita, per molti motivi.
Alcuni li conosco bene, li aspettavo e sto imparando ad
affrontarli, altri invece sono arrivati un po’ cosi. Per caso.
Sto imparando a vivere quello che capita senza troppe fantasie
sul futuro, ma con la serenità del presente. La dove riesco ad essere sereno.
La fierezza della vita vissuta è un anestetico verso la
rabbia della vita che passa e la consapevolezza dell’età matura.
Mi guardo allo specchio e mi rendo conto di me stesso, ma me
ne faccio una ragione.
Sono forse contento di rallentare i ritmi di vita, di
assaporare ancora di piu’ il mio silenzio e sapere che avro’ la possibilità tra
breve di ritrovarmi ancor di piu’ padrone di me stesso. Senza dover dimostrare
nulla a nessuno, senza dover per forza costruire qualcosa, ma finalmente
sedermi dentro a tutto quello che ho costruito e lasciarmi crogiolare dal
semplice piacere di esistere.
Conosco bene e sono felice come non mai nel vedere mia
figlia che ha preso la sua strada.
Fino a ieri era una figlia, a prescindere dall’età. Non che
oggi non lo sia piu’, ma è piu’ donna e padrona della sua vita.
Sarà meno mia e ho aspettato tutta la vita che questo
accadesse.
Non posso pensare a nulla di piu’ bello per lei che questo.
Come se io avessi finito un compito, pur sapendo benissimo
che finito non è.
Anche se come ogni passaggio, ci vuole un attimo per
ritrovare il sereno equilibrio.
Scaccio una lacrima, credo comprensibile, a questo pensiero.
Piu’ per quello che avverrà che per quello che è stato.
E’ sabato mattina, la finestra aperta sul balcone mi porta i
rumori lontani della città.
Un’auto che passa, una porta che sbatte, il cicalino
dell’ascensore, i passi per le scale, un tram in lontananza, ma anche un
cinguettio che poco si sposa con l’aereo che sorvola lontano.
Pero’ è il cinguettio il rumore che mi distrare, insiste e
rompe il silenzio con forza, forse per il suo essere diverso dagli altri rumori
della città.
Mi accorgo che c’è un raggio di sole. Lascio la tastiera e
lo vado a cercare.